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domenica 30 novembre 2008

UN CONFLITTO LINGUISTICO IN CLASSE

Conflitto.
‘Perché ‘name’ si scrive così?’ mi ha chiesto una bambina, qualche giorno fa, quando scrissi alla lavagna la parola ‘name’ che faceva parte della frase interrogativa per la richiesta di un nominativo. Questa è una parola che lei già usa e conosce da un bel po’ di tempo. Io le ho risposto nel modo che lei ha già sentito più di una volta: ‘Si scrive così perché così fa l’inglese e noi l’abbiamo già capito da un bel po’ di tempo che questa lingua ci fa tanti scherzi, non è vero?’
Quella bambina è già padrona della parola ‘name’ perché la sa usare nelle domande che le porgo e lei la usa quando a sua volta intervista i suoi compagni di classe. Dunque, perché quella domanda? Mi domando qual è il “carico di significato” di quell’interessamento e di quella interrogazione, da parte di lei.
Nel tono della domanda, io non ho percepito nulla che mi potesse far pensare ad un disagio. Anzi, conoscendo la buona personalità dell’alunna, conoscendo la sua capacità d’adattamento alle nuove cose che la scuola le presenta, conoscendo la sua ‘plasticità’ intellettuale, conoscendo la sua disponibilità e la sua valida curiosità, io non mi sono sentito a disagio con la sua domanda. Poi, successivamente, ho osservato nel suo quaderno la sua scrittura del testo che aveva da copiare e ho considerato che lei aveva scritto correttamente la parola che lei aveva posto in questione. Il mio sguardo poi è andato sul quaderno di un altro alunno. Leggo il suo testo. Trovo scritto, la stessa parola, così: ‘neim’.
Questo episodio mi ha dato da pensare. Cioè: una bambina pone una questione ma dal suo canto non fa errori di sorta, un altro bambino non parla e non comunica alcunché di difficoltà ma incorre in un errore che non ci dovrebbe essere nel suo lavoro, tanto più che, per lui, il lavoro consisteva nel ‘semplicemente copiare dalla lavagna’ un testo scritto e copiare è un gesto sia passivo che di routine.
Credo che nel pensiero del bambino sia accaduto un conflitto intellettuale e intellettivo assieme. Il suo pensiero non è stato capace di ‘separare’ l’atto percettivo ‘ascolto’ dall’atto percettivo ‘vedo’. L’atto percettivo ‘ascolto’ si è posto come dominante sull’altro. Uno delle due modalità percettive si è posta come dominante impedendo al suo intelletto di assimilare e di adattarsi alla situazione conoscitiva nuova che gli si poneva davanti ( J. Piaget, La représentation du monde chez l'enfant – 1926).
Ma non solo. In quale linguaggio e simbologia grafico-alfabetica quel bambino si è espresso? Si è espresso in lingua italiana. Ha usato l’alfabeto italiano per scrivere quel suono!
Considero, come insegnante, che anche questo ’errore’ non debba essere ridotto a semplice errore ma bensì ritengo quel fatto, scolasticamente riconducibile ad ‘errore’, non sia altro che una dimostrazione di adattamento intellettivo. Quindi, nell’errore evidenziato, c’è comunque una precisa capacità intelligente di elaborare informazioni e conoscenze da parte di quel bambino.
Perché rifugiarsi nell’alfabeto italiano e trovare in esso una soluzione comportamentale piuttosto che copiare quello che c’era scritto alla lavagna? Non sarebbe stato più breve ed economico fare la copia di un testo invece che ricercare una nuova decodificazione della trascrizione fonetica di una parola? A prima vista sembrerebbe un giro tortuoso, lungo e più faticoso oltreché sbagliato.
Ma quell’alunno ha scelto così. In realtà non è stato il frutto di una scelta intenzionale ma di una dominanza: la dominanza della lingua madre sulla nuova lingua straniera. Quel comportamento è stato la conseguenza della sua scolarizzazione e della sua alfabetizzazione, che è ancora in corso alla sua età e per la sua classe di seconda elementare.
Nei primi due anni della scuola elementare, l’alunno compie un nuovo cambiamento nella formazione della sua personalità e della sua crescita intellettuale e scolastica: viene alfabetizzato e diventa italiano. In questo periodo dell’esperienza scolastica e di vissuto dell’impegno educativo dato e richiesto dalla scuola, dagli insegnanti e anche dalla famiglia, l’alunno viene posto di fronte ad una contraddizione didattica. La contraddizione si pone nel tempo e nello spazio dell’esperienza . Viene posto di fronte ai suoi occhi, come segno, e ai suoi orecchi, come suono, uno stesso simbolo, di grande astrazione razionale qual è il segno della lettera dell’alfabeto, e questo segno viene abbinato a una doppia produzione fonica: una proveniente dall’italiano e, contemporaneamente, a questo segno viene abbinato un'altra produzione fonica proveniente della lingua inglese.
Questo è un conflitto, questo crea un conflitto nella didattica dell’insegnamento della lingua, sia di quella italiana che di quella inglese. Questo conflitto ha come diretta conseguenza il disorientamento conoscitivo nell’alunno di 6/7 anni iscritto alla seconda classe della scuola elementare. Ecco perché quell’alunno aveva sbagliato a scrivere quella parola che suona in un modo se la leggi ‘al modo italiano’ e suona in un altro modo se la leggi ‘al modo inglese’.
Ma quel bambino ha voluto veramente scrivere quello che ha scritto. Lui non voleva scrivere ‘name’ in quanto lui non dice ‘name’ ma dice ‘neim’. C’è un mito in atto. Proviamo a svelarlo: ‘Se io parlando dico ‘neim’ vorrà dire che scrivendo scriverò ‘neim’!’
Concludendo, quando si deve scrivere l’inglese? L’inglese scritto si potrà presentarlo dopo che gli alunni abbiano risolto ‘l’alfabetizzazione nella lingua italiana’. Occorre separare il tempo, dal momento che non è possibile separare lo spazio, dei due insegnamenti e posticipare l’introduzione delle parole scritte in lingua inglese rispetto all’italiano.
Dopo la conquista della grafia della nostra lingua madre e l’autonomia raggiunta dall’alunno nell’abilità di produzione grafica, possiamo presentare le parole inglesi nella loro forma scritta.
Il rapporto ‘alunno-parola’ in questa fase dell’insegnamento è di ‘passività’. Le parole sono date pronte. Le parole della lingua straniera non possono essere né scoperte né intuite! Devono necessariamente essere introdotte dal docente quindi vengono imposte o meglio ‘scelte’ dal docente rispettando gli obiettivi didattici educativi e formativi descritti nella programmazione.
I vocaboli scritti possono essere consegnati agli alunni dopo essere stati ‘usati’ oralmente, conosciuti nell’uso, nel significato, nel gesto, nella mimica dell’imitazione, nel contenuto comunicativo, nel valore semantico ed empatico. Occorre passare prima dall’esperienza personale vissuta e sentita, giungendo dopo all’utilizzo del vocabolo scritto. Le parole sono oggetti presi interi: si scrivono su cartelli (preparati dal docente) e, come cartelli, si possono prender in mano, possono essere oggetto di giochi, di manipolazione e si vedono nella loro forma e costruzione senza chiedere all’alunno di scriverle perché il ‘gioco’ non lo prevede.
A chi è dedicata la scienza della Pedagogia e la scienza della Didattica delle lingue? Non certo a quegli studenti che ‘senza problemi’ ( cioè, dotati di una intelligenza plastica, adattabile, recettiva e produttiva positivamente e proficuamente nei luoghi e nei tempi scolasticamente precostituiti) affrontano novità e stimolazioni intellettuali in modo positivo bensì il contributo teorico delle teorie dedicate al mondo scolastico trovano nell’alunno più bisognoso, più fragile il loro obbiettivo scientifico e il loro scopo culturale. Un esempio storico di questa finalizzazione lo troviamo negli studi e nella opera scientifica compiuta dal medico M. Montessori. Essa si è dedicata lungamente alle problematiche dell’insegnamento e della didattica per bambini in difficoltà (Corso della Pedagogia scientifica, 1909). La pedagogia interviene come un cambiamento rispetto ad un passato criticato ed si presenta come propositrice di un futuro migliore.
E l’inglese? L’inglese si …“parla”! C’è qualcosa contro l’esclamazione che l’inglese si parli? Anzi: l’inglese si canta, si danza, si disegna, si recita, si ascolta, si vede nei filmati dedicati all’infanzia. L’inglese si “gioca” , gioca proprio nell’accezione che i bambini danno a questa parola.
Ogni parola e ogni frase deve avere significato vissuto in prima persona dal bambino, assimilato e interiorizzato prima di venire presentato nella sua forma scritta. Prendiamo una parola: ‘Hello!’. Quando si dice? Perché si dice? A chi si dice? Dove si dice? Come si dice?
E poi si continua! Perché quando si dice ‘ciao’ tutti sono in attesa che accada qualcosa ancora. Parafrasando il titolo di un libro di un autore americano ‘What do you say after you say hello?’ (E. Berne, ed Bompiani 2000) dopo aver detto ‘ciao’ viene voglia di dire altra ancora. Ma che diciamo dopo? Dopo parliamo di noi, così che gli argomenti li conosciamo di già e non ci resta che esprimerli in inglese. Parliamo dell’io e del tu, parliamo degli argomenti più vicino all’esperienza dell’alunno.
Quale modello si può proporre? Si può proporre un modello ‘naturale’: la storia di una persona inizia dalla nascita. Il neo nato impara nel contesto familiare. Impara tutto: il contenuto e la forma del linguaggio. Al terzo anno di vita conosce già alcune centinaia di vocaboli della sua lingua madre. Non sa scriverne neanche uno. Anzi non sa cosa farsene delle parole scritte oltre non sapere che cosa siano. Quando un bambino giunge alla scuola dell’obbligo della sua lingua ha già immagazzinato e conosce una enorme quantità di cose su cui egli può inferire l’atto intuitivo: vocaboli, termini tecnici ed espressioni di alta precisione, usando regole e leggi della lingua italiana con massima precisione epistemologica senza conoscere le regole della grammatica che le governano. Usa vocaboli e strutture grammaticali che hanno delle proprietà morfologiche di ‘terribile’ spiegazione grammaticale, tipo: ‘me ne dai un po’ di cioccolata?’ oppure ‘dagliene dell’altra …cioccolata!’ , ‘ne vuoi un po’?’.
Solo con il raggiungimento della scuola media capirà quale regola della nostra lingua usiamo quando diciamo quelle espressioni .
Egli ha vissuto, quella cosa che molti dicono con troppa facilità, il ‘full immersion’ di ben 5/6 anni nel territorio, nell’ambiente originale e nella realtà, nella lingua viva di tutti giorni oltreché posto in un ambiente emotivamente ed affettivamente confortante e protettivo. Un Autore (J. Asher, professore di psicologia alla San José State University, in California) dice che prima delle parole si pongono i gesti e che, lui afferma, ‘l'apprendimento delle lingue dovrebbe essere basata sul modello del primo apprendimento delle lingue’ cioè come impara la lingua madre un neonato: dai ‘gesti’ della madre. I suo metodo (Total Physical Response Method, 2000) si basa sull'assunto per cui quando si impara una seconda lingua o un'ulteriore lingua, quella lingua viene interiorizzata tramite un processo di codebreaking ("decodifica") simile allo sviluppo della prima lingua e per cui questo processo permette di ascoltare e sviluppare la comprensione ancor prima di produrre.
Posto su una linea continua storica, l’insegnamento di una lingua straniera segue questo ordine: ascolto, parlo imitando, vedo il segno scritto, lo copio e lo riproduco uguale al modello. Questa sequenza ordinata così ha in sé una rigidità e gli organi e i sensi coinvolti e impegnati corrispondono ai seguenti organi fisici: orecchio, bocca, occhio, mano. Quattro parti del corpo che ritmano sia la vita che la conoscenza. La didattica di una lingua nuova ha bisogno di porre questi quattro momenti e organi del nostro corpo alla base di ogni affermazione e istituto programmatico.
Fra le varie lingue del mondo, l’inglese, più delle altre, non può essere letto ‘a prima vista’: prima di emettere i suoni dalla bocca e leggere (suonare) una parola qualcuno deve averci fatto sentire (suonare) la sua pronuncia.
Una volta i mastri artigiani dicevano agli apprendisti artisti: prima guardare, dopo fare!
Ogni conflitto evitato nella didattica della lingua straniera è un dramma in meno per quei bambini che, pur desiderosi, non riescono facilmente nel loro lavoro di apprendisti della lingua straniera, perché la ‘maturazione’ dei loro tempi e delle loro strutture mentali non è contemporanea con l’appuntamento scolastico.
La lingua inglese non dovrebbe essere vissuta ‘strana’nel suo essere straniera, essa deve essere vissuta usabile subito, espressiva e comunicativa sin dal primo momento del suo debutto nella esperienza della scolarizzazione degli alunni.
Questo non è in caso degli editori dei libri scolastici. Le prime agenzie che contesterebbero una impostazione della didattica, con questi contenuti metodologici, così come da me descritti qui, saranno proprio gli editori. Un insegnante della lingua inglese viene persuaso facilmente da libri che promettono tantissimo. Certo, gli editori devono muovere denaro. Ma il mercato non ci interessa se esso non è riconducibile alla nostra mèta, all’obbiettivo della scuola.
Invece, in classe, al posto di parole ‘follemente buttate addosso ai bambini’ che ancora non sanno leggere le ‘loro’ parole originarie, bisogna offrire ‘relazioni’ fra il sé e l’altro nell’interazione conoscitiva data dalla comunicazione empatica, fisica, affettiva, emotiva posta dal docente che scambia contenuti vitali attuali con bambini ricchi di contenuti potenziali.

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